L’INELUTTABILE DRAMMA DEL LINGUAGGIO OGGI È MENO COMICO DI IERI
Mai come in questo periodo di profonda incomunicabilità La lezione di Ionesco si veste dei panni grotteschi di una tragedia di un uomo piccolo piccolo, deriso dalla sua stessa incapacità di spiegare a un’allieva una semplice sottrazione: 4-3. Il «dramma comico in prosa», come lo definisce l’autore, è del 1951, sei anni dopo la caduta del nazismo, un periodo intellettualmente molto fervido (Visconti girava Bellissima, la Yourcenar pubblicava le Memorie di Adriano) grazie a una maggior serenità dei rapporti tra i popoli, e a un forte desiderio di fratellanza e di scambio di informazioni, attraverso messaggi densi di rivelazioni. Ionesco si guarda alle spalle – a quel che è stato fino a prima della guerra – e osservando, col senno di poi, quelle atrocità ne ricava, appunto, un dramma comico, quasi spensierato, ma frutto di una sofferenza trascorsa: l’incapacità di comprendersi. Ecco che, al finale, la soluzione logica, di un dramma che logica non ha mai avuto, è mettersi al braccio una fascia rossa con la croce uncinata. Così, l’assassinio della ragazza «diventa una faccenda politica», dice la governante.
Nell’allestimento che Antonio Calenda ha portato «a Roma per la prima volta» (giuro, non lo avrei mai detto) sotto la grande arcata del Teatro Basilica, vien fuori violentissimo il tema della difficile comunicabilità tra un anziano professore e una giovanissima allieva. Sia con le semplici richieste di calcoli aritmetici che col paradosso della «filologia linguistica e comparata delle lingue neo-spagnole» sembra che i due proprio non s’intendano: esattamente come oggi accade quando un sessantenne cerca di dialogare con un «nativo digitale». Per il più anziano diventa un serio problema esistenziale prendere atto di non essere più in grado di capire il linguaggio corrente; ci si sente immediatamente emarginati, assenti, quasi inutili alla vita contemporanea.
Questo ineluttabile dramma del linguaggio perduto (o, se vogliamo, divergente; comunque, non più efficace alla comprensione generazionale), nel gioco dell’assurdo che Ionesco si diverte a comporre per i suoi personaggi, e che Calenda rispetta con grande rigore, cresce d’intensità fino a coprire la gravità dell’assassinio. Mentre l’allieva implorava il professore di interrompere la lezione, invocando il mal di denti, l’altro implacabile la dominava con il suo linguaggio ossessivo che s’è rappreso in una lama di coltello che ha colpito. L’omicidio – o il femminicidio (si direbbe oggi) – passa, infatti, in secondo piano, come fosse una tragedia minore, perché diretta conseguenza del primo dramma che è universale e di cui il femminicidio è soltanto uno dei tanti mostruosi effetti.
Forse ci si sarebbe dovuti interrogare con l’occhio rivolto al presente, investito dagli aridi acronimi, e non fossilizzarsi sui preziosi suffissi del passato; si sarebbe dovuto indagare sullo spettrale vocabolario informatico che quotidianamente sradica le nostre antiche origini latine, più che soffermarsi sulla poetica assurdità della «filologia linguistica e comparata». Infatti, il riferimento alla svastica nazista – che Calenda accentua mostrando anche una grande bandiera con il marchio del Führer – riporta l’opera di Ionesco allo storico valore originale (1951), quando invece, fino a quel momento, aveva mostrato, con la sua potente freschezza, di poter scavalcare il terzo millennio con grande agilità e immortale leggerezza.
Foto © Tommaso Le Pera