PER NIKE UN PROZAC CONTRO LE NEVROSI DA TRAFFICO
Più che una recensione Storia d’incroci e d’anarchia merita una riflessione. Un’amara riflessione, non sui temi che tocca il testo, condivisibili ed egregiamente interpretati da Veronica Milaneschi, ma sul modo di far teatro. Sul sistema monologo. Veronica, giustamente, potrebbe dirmi: ma come, proprio quando vieni a vedere me, ti metti a fare la riflessione sul monologo: si vede che sei di Roma Nord! E Veronica avrebbe mille ragioni per rimproverarmi, ma voglio tranquillizzarla: credo di poter affrontare tranquillamente il discorso, per certi versi un po’ polemico, approfittando della sua simpatia, della sua bravura come attrice, e della sua arguzia come autrice. Il testo è promosso. La realizzazione pure. E anche la regia di Patrizio Cigliano ha condito l’allestimento con tutto quel che occorreva per rendere più gustosa e divertente la performance.
Forse, però, sbaglio: è giusto prima dedicare spazio allo spettacolo. Veronica interpreta Nike, come la dea della vittoria, ma sarebbe stato più adatto il nome di Dike, la dea della giustizia, e se ci fosse una dea del traffico, magari travestita da vigile urbano, sarebbe stata ancora più azzeccata: fatto sta che Nike è una specie di Rambo dell’incrocio romano, uno Sterminator dell’ingorgo sul lungotevere, un Giustiziere stradale dell’ora di punta, che per rientrare dalle nevrosi nei canoni civili e diplomatici ricorre all’aiuto del Prozac o del Lexodan. Nike, in effetti, è lo specchio dell’anima ribelle di moltissimi automobilisti costretti ad attraversare le strade della Capitale fermandosi ai semafori eternamente rossi, vittime dell’anarchia che regna al volante, e della diseducazione viaria.
Lei dice di sé che è una «appassionata di giustizia stradale», ma in realtà Nike siamo noi. Da docile gattina si trasforma in un leone – e Cigliano spesso crea con il sonoro di un profondo ruggito la metamorfosi aggressiva – incline a sbranare anche un povero pedone che le toglie la precedenza. Il traffico romano, si sa, porta a questi eccessi, che, per quanto possano essere violenti, non raggiungono mai il paradosso, perché veri, quindi sempre possibili. E lo sono! Ciascuno di noi, nell’intimità del proprio abitacolo, crede di essere l’unico a incarnarsi in una belva, ma non è vero, siamo tutti posseduti dalla «bestialità» di Nike che, in caso di necessità, viaggia con un sampietrino nella borsetta, pronto per essere scagliato contro il primo arrogante al volante. E quanti ne incontriamo sul nostro percorso quotidiano: per questo il monologo funziona; per questo le battute vanno a segno; per questo Veronica – che spero mi perdonerà se la chiamo solo per nome, ma il cognome mi porta troppo fuori Roma! – riesce a trascinarci, al grido di «Tekemaya Mayakon» (lo stesso di un personaggio dei cartoni giapponesi degli anni passati), nelle sue trasformazioni barbariche con piccola mannaia a portata di mano. Tutti ridiamo e tutti applaudiamo.
Ed ecco che il pubblico si ferma alle risate, agli applausi finali e, al massimo, a qualche riflessione relativa all’argomento trattato dal testo: come le differenze tra Roma Sud e Roma Nord, condensate nell’eterna conflittualità tra popolo giallorosso e pariolini biancazzurri; ma ce ne sono pure altre, e molto argute. Purtroppo però, un monologo così strutturato – ben riuscito, simpatico e accattivante che sia – resta sempre una ferita nell’animo di chi vede il teatro ridotto a un esperimento diretto tra un solo interprete e il pubblico; tutto il resto è cancellato, perfino il palcoscenico. Il testo ideato dalla Milaneschi è un punto fermo che si sviluppa in un’unica direzione, senza una storia, senza un movimento, senza uno sdoppiamento, senza un dramma, ma soltanto con l’intento di far ridere. E ridere fa.
Siamo obbiettivi, però! Si può chiamar teatro, uno spettacolo di cui si nota soltanto un primo piano? Certo che no. E non può neanche travestirsi da cabaret, ché lì c’erano diversi attori e il comico e la ballerina e la musica e tanto movimento. Mi spiego: a me sembra che uno spettacolo così concepito (e, ripeto, Storia d’incroci e d’anarchia è un testo che piace e convince) sia esperimento più per la televisione che per il palcoscenico, perché, dietro alle parole e alle espressioni della protagonista, non c’è niente, tutto sparisce; esattamente come s’annulla lo sfondo di un primo piano cinematografico del volto di un attore. Noi tutti dalla platea abbiamo visto e abbiamo apprezzato la performance di una interprete, ma siamo rimasti concentrati solo sul suo viso, perché non c’era altro da vedere, se non qualche oggetto tirato fuori dalla borsetta, sampietrino compreso. Spero solo che Veronica non si dispiaccia di questa mia riflessione che prescinde dalle sue qualità recitative, perché tutto di lei ho e abbiamo ammirato, ma se l’anarchia con la quale ci ha allietato, prevede l’abolizione del potere autoritario, certamente non contempla l’espropriazione di un palcoscenico. Cigliano ha fatto un ottimo lavoro per tentare di far vivere, con improvvisi effetti luminosi, anche lo spazio intorno alla protagonista, ma il testo e la recitazione sono talmente diretti al pubblico che anche gli oggetti, appena mostrati, spariscono nel nulla, senza più vita. Figurarsi il resto.
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