06 febbraio 2025

«La morte a Venezia» di Liv Ferracchiati

Roma, Teatro India
5 febbraio 2025

COM’È NOIOSA L’INTELLIGENZA
AL COSPETTO DELLA BELLEZZA

Tutto ciò che si porta sul palcoscenico diventa esibizione. Quando si porta un simbolo della bellezza, questo solitamente risulta vincente. Quando si vuole esibire l’intelligenza senza ironia, solitamente annoia. Quando, come in questo caso, intelligenza e bellezza si confrontano sotto i riflettori in uno scontro visivo e dialettico, l’intelligenza diventa un’insopportabile intrusa, una disturbatrice. Per di più, l’operazione di Liv Ferracchiati, ispirata all’innamoramento del professor Gustav von Aschenbach per il giovane Tadzio, descritto da Thomas Mann in La morte a Venezia, pare voglia dimostrare esattamente l’impotenza della parola cólta di fronte alla contemplazione della bellezza. «Meglio il tuo corpo che le mie parole», dice il professore in scena, sentendosi inadeguato al corteggiamento. Tuttavia occorre aver ben presente le possibilità che offre il mezzo con cui si vuol proporre l’esibizione della contesa/intesa: è sufficiente una ribalta spoglia (soltanto un telo dove si proietta l’immagine del bello) per realizzare un percorso scenico sullo scabroso rapporto tra due persone che non si conoscono?

Dev’essere stata, questa, una domanda che Ferracchiati s’è posto, se ha optato poi per la telecamera in scena con la quale inquadrare l’oggetto del desiderio, quel corpo senza parola, che si esprime soltanto con il movimento di una danza flessuosa, sinuosa, o con un accenno di sorriso in estasi perenne, a volte quasi dormiente: è il modo di comunicare della bellezza. D’altronde una statua «parla» con la fissità della sua forma. Parecchi anni fa, visitando i Musei Vaticani, mi soffermai a guardare il gruppo del Laocoonte; accanto a me un signore s’era portato uno sgabello e fissava la scultura molto concentrato; dopo più di un’ora, ripassando per lo stesso luogo, vidi che il signore era ancora lì ad ammirare l’opera osservando il più sacro silenzio. Era chiaro che tra le due parti corresse silenziosa una preghiera intima.

La stessa preghiera che Luchino Visconti ha captato nelle pagine di Thomas Mann e ha restituito, attraverso la macchina da presa, mostrando la muta contemplazione della bellezza quando il professore sente che la vita lo sta abbandonando: un atto d’amore disperato fatto solo di sguardi e silenzio, di desiderio e di tempo. Il tempo che sta per scadere e la percezione che la bellezza non si potrà mai possedere così com’è. Nell’adattamento di Ferracchiati manca il senso dell’imminente scadenza, manca la morte, manca la disperata esigenza di vivere, e, senza pathos, la spiegazione intellettuale diventa una drammaturgia avulsa dal tema, una didascalia stonata che produce soltanto inadeguatezza (che comunque fa parte delle intenzioni dell’autore dello spettacolo).

Tutte le attenzioni sono rivolte al personaggio che Alice Raffaelli incarna, senza mai far leva sulla sensualità di genere: lui, il professor Liv, infatti si esprime in forma neutra, rivolgendosi alla bellezza alternando il femminile al maschile e viceversa. La bellezza, in un dialogo registrato, risponde come se fosse Tadzio (la voce è di Weronika Mlódzid), ma la sua entità è vaga, com’è vago e vano il suo carattere. Ed essendo una creatura coinvolta soltanto dalla propria estetica non reagisce alle riflessioni, comunque intelligenti, dell’altro che le scivolano addosso. Dunque, nessuna emozione intercorre tra i due. Anche le parole di Von Aschenbach vengono dette senza alcun trasporto. E allora mi chiedo: come si può pretendere di coinvolgere il pubblico emotivamente se in palcoscenico regna la frigidità? (fn)
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La morte a Venezia, ispirato all’opera di Thomas Mann; drammaturgia e regia di Liv Ferracchiati. Con Liv Ferracchiati e Alice Raffaelli. Voce di Tadzio, Weronika Mlódzid. Movimento, Alice Raffaelli. Dramaturg, Michele De Vita Conti. Scene, Giuseppe Stellato. Costumi, Lucia Menegazzo. Al teatro India, fino al 9 febbraio

Foto: Liv Ferracchiati e Alice Raffaelli (© Andrea Veroni)

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