08 febbraio 2025

«Guerra e pace» da Lev Tolstoj

Roma, Teatro Argentina
7 febbraio 2025

I DRAMMI NON SI DICONO A PAROLE, SI DEVONO VIVERE

Lettera aperta a Luca De Fusco, regista dell’allestimento

        Caro Luca,
essendo un osservatore di teatro totalmente libero e completamente anticonformista, con te mi permetto di usare la forma più confidenziale possibile per riflettere insieme sul tuo ultimo spettacolo. Premetto che al levar della tela, l’effetto è magnifico: scene, musiche, luci e tutti i personaggi che invadono lo spazio s’impastano perfettamente, anche grazie ai costumi, creando un’atmosfera che fa presupporre una grande opera corale (intendo attori e regia, compresi i collaboratori naturalmente). Parte della suggestione di magnificenza, in verità, accompagna lo spettatore sin dal foyer: il titolo che troneggia sui manifesti – Guerra e pace – non è un titolo qualunque, ma di forte impatto, essendo quello della più colossale pubblicazione letteraria dell’era moderna (1865). Ora, io capisco benissimo che, soprattutto in un’epoca culturalmente arida, come la nostra, i libri vengano letti con eccessiva parsimonia, e certamente sono rarissimi coloro che si dispongono a prendere in mano le circa 1.500 pagine scritte da Lev Tostoj; so anche perfettamente che molti italiani purtroppo restano affascinati dalla demenza delle oscene serie televisive; ma sappiamo bene, io e te, che libri e teatro necessitano di tempi differenti da quelli usati da una puntata di una fiction, dalla velocità e dalla sintesi che le pessime abitudini di oggi ci impongono.

Ricordiamoci di Luca Ronconi quando proponeva l’allestimento di un testo «anomalo»: ci si armava di santa pazienza e si rimaneva seduti in platea per sei o sette ore (se andava bene!). Ho memoria dei Fratelli Karamazov, per esempio: sei ore complessive. Però, ancora oggi, me lo ricordo. E mi ricordo perfino il dito che l’amico Giovanni Crippa passava e ripassava sul bordo del tavolo, un gesto ossessivo e reiterato che aveva un valore visivo molto più potente di tanti discorsi; famosa è la versione fiume dell’opera di Krauss (11 ore) al Lingotto di Torino. Oppure, più di recente la maratona (12 ore) dei Demòni di Stein. Ogni spettacolo necessità della durata che il testo esige. Ebbene, io penso che nessuno ti abbia costretto a portare in scena il capolavoro di Tolstoj: se ciò è accaduto è perché tu, e solo tu, hai avuto questo desiderio. Quel che mi incuriosisce è il motivo che ti ha spinto a scegliere un romanzo di 1.500 pagine che descrive tre guerre, le vicissitudini di cinque famiglie aristocratiche, le traversie di due città e di due imperatori, una struttura storica che comprende i 7 anni di una lunga campagna militare, riferimenti filosofici, veri e propri saggi sulle strategie di guerra e sul potere politico dell’epoca, amori, matrimoni, attese, separazioni, malattie e tanto altro… perché, mi chiedevo, voler considerare un simile colossale romanzo alla stregua di una commedia da due ore? Non si può fare il condensato di un’epopea in 130’ e pensare di restituire i sentimenti di una popolazione (pur se ristretta a una decina di persone).

Quando tentasti la medesima operazione con Anna Karenina, la sfida in parte riuscì perché la storia principale di quel romanzo è tutta incentrata sulla protagonista e la trama – pur se ridotta – comunque si sviluppa con un criterio: con un prologo, un dramma centrale e una tragedia finale. La trascrizione teatrale che ne fece Gianni Garrera seguiva un percorso drammaturgico completo pur sacrificando gran parte delle passioni di Kitty. Qui, in Guerra e pace, questo non accade. Non può accadere. La materia è talmente vasta e possente che a un certo punto si ha l’impressione che la scena si sfaldi sotto il peso del romanzo con tutto quel che si trascina dietro. La scalinata non regge l’imponenza della storia dei Rostov, dei Kuragin, dei Bezuchov, dei Bolkònskij e le pareti non contengono le battaglie di Austerlitz, di Borodino e della Beresina, e soprattutto non danno respiro all’immensità della Russia imperiale (che obbiettivamente non c’è, non se ne sente nemmeno il profumo). L’adattamento, che naturalmente cancella intere sezioni dell’opera, sembra non preoccuparsi troppo dell’andamento sentimentale dei protagonisti, di una loro crescita emotiva sempre abortita dopo poche battute.

Solitamente delle tue regie, per mia educazione teatrale, non amo le proiezioni delle immagini. Invece, stavolta, le emozioni sono arrivate proprio dagli interventi tecnici di Alessandro Papa: la bandiera che sventola e pare invadere la platea, il gioco delle braccia che si incrociano e sembrano baciarsi, le ombre dei russi che si ritrovano per le strade, l’infinito cielo stellato. Soltanto l’incendio è un po’ troppo alla Gallone. Ma le proiezioni astratte hanno offerto il giusto respiro alla cifra sentimentale del romanzo. Un lavoro estetico che male non fa, ma che resta una tinteggiatura di superficie, una romanella, mentre Tolstoj non fa altro che approfondire i rapporti, di scrutare nell’animo della gente, nella condotta dei politici, nelle strategie dei condottieri, nel pensiero e nel sentimento umano. Ebbene, tutto questo manca.

Dopo la bella impressione iniziale, durante la quale vengono introdotti validi e corposi argomenti con una disputa interessantissima su quel che è la guerra e quel che è la pace, quindi sul bene e sul male della vita, sulla possibilità che certi uomini di potere hanno di uccidere il prossimo mentre altri hanno il dovere di morire per essi, sulla necessità per l’uomo di correre in battaglia mentre la pace è affare esclusivo per la bontà delle donne, su Napoleone che per taluni è un eroe lungimirante e per altri è soltanto un presuntuoso assassino… be’, dopo la bella impressione iniziale comincia una fuga da una quinta all’altra di personaggi che si susseguono senza lasciar traccia drammatica in palcoscenico. Loro sono tanti, e sono troppe le vicissitudini che ciascuno vorrebbe perorare davanti al pubblico, ma non ha il tempo di raccontarle appieno né di farle crescere (altrimenti si superano le tre ore di spettacolo: è questo il punto!); e quel che più s’avverte è che gli è stata negata (ai personaggi) la possibilità di soffrirle, quindi di recepirle. I drammi in palcoscenico, lo sai bene, non si dicono a parole ma si devono vivere, altrimenti al pubblico arriva una radiocronaca incessante senza reti e senza sussulti.

Gli attori non si discutono: bravissimi tutti. Da Pamela Villoresi a Federico Vanni, da Paolo Serra a Giacinto Palmarini, da Eleonora De Luca ad Alessandra Pacifico Griffini, da Raffaele Esposito a Lucia Cammalleri, tutti meritano di essere nominati e applauditi. Per una mia particolare predilezione mi piace mettere sul podio del personale gusto Mersila Sokoli e Francesco Biscione, ma la medaglia d’oro spetta alle musiche di Ran Bagno: non ho dubbi. Sulle scene di Marta Crisolini Malatesta, invece, non so se è stato un mio colpo di testa o se è stata la mano di Dio, ma mi pare di averne già intravisto il germe abbastanza evidente, con quel lampadario di cristalli da ciel piovuto, e d’alto effetto decadente, in una stanza nobiliare di un antico palazzo partenopeo. Nulla di grave, per carità, ma l’occhio attento del libero osservatore registra tutto quel che vede.

Il pregio di quest’operazione, tuttavia, si evince dalla fedeltà che l’allestimento ha dedicato alla generale tragedia descritta nel romanzo: non mi si fraintenda, mi riferisco al fatto che giustamente hai avuto l’accortezza di evitare riferimenti espliciti agli attuali conflitti bellici. Non se ne sentiva la necessità. Le idee di Tolstoj sopravvivono al tempo e quel che la guerra fece allora a Mosca oggi lo fa a Kiev e anche altrove: gli imperatori passano, il male resta. Mi ha colpito una differenza letteraria: si dice, al finale, che per elevarsi bisogna sdraiarsi; Trofimov, nel Giardino di Cechov, qualche anno dopo, invece, sostiene che per elevarsi bisogna lavorare. Ma quando Cechov scriveva della famiglia di Liubov (1903) non si combattevano guerre: evidentemente il lavoro, inteso come fatica, è uno strascico della pace. E duro lavoro è recensire un tuo spettacolo, caro Luca. Dunque, andiamo in pace. Tuo affezionatissimo e, come sempre, sincero fn
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Guerra e pace, da Lev Tolstoj, adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco. Scene e costumi, Marta Crisolini Malatesta. Disegno luci, Gigi Saccomandi. Musiche, Ran Bagno. Creazioni video, Alessandro Papa. Coreografia, Monica Codena. Con Pamela Villoresi (Anna Pàvlovna Scherer), Federico Vanni (Michail Illariònovic Kutùzov e Fedor Ivanovic Dolochov), Paolo Serra (Principe Vasilij Sergèevic Kuràgin e Principe Nikolay Bolkonskij), Giacinto Palmarini (Anatòlij Vasil’evic Kuràgin Nikolaj Rostov), Alessandra Pacifico Griffini (Hélène Kuragina), Raffaele Esposito (Principe Andrej Bolkonskij), Francesco Biscione (Petr Kirillovic Bezuchov), Eleonora De Luca (Sòf’ja Aleksàndrovna Rostòva), Mersila Sokoli (Natàl’ja Il’inic na Rostòva), Lucia Cammalleri (Màr’ja Nikolàevna Bolkònskaja). Regia di Luca De Fusco. Produzione: Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo, Teatro Stabile di Catania. Al teatro Argentina, fino al 23 febbraio

Foto: Una bella immagine dello spettacolo (© Rosellina Garbo)

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