11 febbraio 2025

«Il minimo comune viaggiatore» di Vincenzo Mascolo

IL CIELO SOPRA L’OLIMPO

Nel suo quotidiano peregrinare lungo i percorsi poetici, Vincenzo Mascolo si concede una sosta per fissare il suo quarto studio in versi, stavolta per i tipi di Interno Poesia. Tutte le raccolte di Mascolo sono, infatti, approfondimenti su un tema, quasi univoco e sempre solido, sicché ogni suo libro si legge come un discorso che si completa con frequenti e misurate riflessioni, come bere una bottiglia di vino corposo a piccoli sorsi e scoprirne infiniti pregevoli gusti e retrogusti. Per Il minimo comune viaggiatore, ultima silloge, in ogni pagina c’è un attento sguardo rivolto alla fine di ogni cosa. Il viaggiatore è l’occhio che scruta alla finestra della vita ed è minimo perché resta fisicamente fermo, appartato nel suo pensatoio, ma il suo spirito vola nello spazio e nel tempo, sì che le immagini dei ricordi si incrociano in dissolvenze critiche, ma tutte suggerite da un tenace sapere. Il viaggio di Mascolo – senza passaporto, ma sotto identità di un poeta celeste – è un continuo partire e approdare da una lettura all’altra, da un autore studiato in gioventù a uno scrittore della maturità. Un percorso sapiente, obbligato, in cui si possono (e si devono) ritracciare, come in un rebus, distillati di letteratura, appunto, corposa, cólta, protettrice.

Ed ecco che Mascolo, per salpare o forse per decollare, affida i versi della prima sezione (il cielo e le città) all’alchimia strutturale di Italo Calvino e alle sue Città invisibili, dove approda nel sogno della Venezia di Marco Polo, nella nebbiosa Milano di Dino Buzzati, nella caotica Lisbona di Pessoa, nella Praga di Kafka, e poi a Barcellona patria di Gaudì, a Buenos Aires dove sotto la penna di Borges cadeva la neve, a Londra, Parigi, Marsiglia, Nizza. Città irreali, adombrate di cupe malinconie, che si rivelano soltanto all’occhio del poeta, il quale le osserva dal cielo della sua dotta stanza procedendo in un percorso sentimentale talvolta a braccetto con Rousseau o nel battello di Rimbaud, oppure immedesimandosi nello sguardo desolato di Eliot. Il cielo è protagonista assoluto di ogni componimento: un cielo striato dai colori dell’umiltà, della leggerezza, della sapienza, ma anche un cielo offuscato dai timori di quel che non sarà mai più, «il cielo scuro dell’inverno» che porta con sé il soffio freddo della verità.

«Da viaggiatore minimo quale sono e fui … percorro sempre in treno brevi tratte» dove «né l’inferno né il purgatorio e il paradiso fanno parte». Nella seconda sezione sboccia netta la dichiarazione d’amore alla Commedia, come punto di partenza e d’arrivo di un viaggio smisurato, perpetuo e circolare, che il nostro non smette di sognare, né di ammirare. Smisurata ragnatela raggruppa tre composizioni centrali, le più esplicative del volume, che da Dante, passando per Shakespeare e per i futuristi, riconducono a Eschilo, grazie all’intervento razionale di Gigi, un amico del poeta che sa ingannare il tempo con l’arte del divenire, misurando «con lo sguardo dalla riva / la distanza che divide l’orizzonte / dalla superficie curva della vita». Sull’orizzonte sfilano, tutti allineati, i grandi poeti che osservano le sofferenze degli uomini, «i dolori atroci … grande sofferenza e pianto», la paura del neofita che si confronta con una differente realtà.

Poesia dotta, certamente dottissima, quella di Mascolo, ma mai appesantita dalla zavorra di intellettualismi o di ermetismi ricercati, che, data la materia, potrebbero facilmente stancare la lettura. I versi, invece, sembrano scivolare sulla logica delle sensazioni che sono per lo più presagi di una morte già avvenuta: «è notte in ogni istante della notte», scrive il poeta «stretto nella morsa della poesia». Il quale trova nella musica la musa ispiratrice per tuffarsi «nelle lingue di fuoco … nell’acqua che ribolle», come un pellegrino che dal paradiso ha la tentazione di abbandonarsi all’inferno con rapide sortite furtive per non perdere mai contatto con la vita. In queste evasioni Mascolo si lascia accompagnare dal compositore islandese Jóhann Jóhannsson che tradusse sul pentagramma il mito di Orfeo rivisitato da Jean Cocteau in una famosa pellicola con Jean Marais: i testi sono quindici, come i brani dell’opera musicale.

La terza parte si concentra sul post mortem: c’è mitologia, c’è Ovidio e c’è Cocteau; ma c’è soprattutto la curiosità di sapere «cos’è che muore … quando si consumano le cellule…». Una domanda che ci riporta a quegli appunti di bioetica che Mascolo condensò già nei versi di Scovando l’uovo (Lietocolle, 2009). La silloge si conclude con una meravigliosa poesia in prosa, scritta alla maniera dell’Ulysses di Joyce, senza punteggiatura, ma cercando e trovando le parole esatte per scrivere «versi di continuo per confondere la morte». In questa galoppata finale si ha l’impressione che il poeta voglia confessare che tutto il suo ragionamento sulla fine, sulla paura della fine, sulla curiosità della fine – che si chiama morte – abbia origine in una fotografia, «incorniciata accanto al letto … che ci ritrae ai piedi dell’Olimpo». Tutto ebbe inizio da lì: l’amore, la vita da vivere insieme e anche la poesia che sempre osserva. (fn)
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Il minimo comune viaggiatore, di Vincenzo Mascolo. Prefazione di Claudio Damiani. Interno Poesia Editori, 2024 (www.internopoesialibri.com). Pagg. 97. Isbn 979-12-81315-31-0. Euro 13,00.

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