HO VISTO COSE CHE VOI UMANI…
No, ma, dico… se ci facevate rivedere il film, non era meglio? Non per infierire, ma stiamo parlando di una pellicola con Alberto Sordi e Franca Valeri, con Enzo Petito e Nando Bruno, Gigi Reder giovanissimo e Angela Luce bonissima, insomma tutta roba d’epoca, sì, ma roba buona, di grande qualità, da cui ancora oggi si può imparare qualcosa. Che ci voleva? Gli attori della compagnia si sedevano giù in platea con noi e si guardava tutti insieme Il vedovo di Dino Risi, regista coi fiocchi. Non c’era nulla di male! Nessuno si sarebbe arrabbiato. Ammetto che un film ambientato negli anni Cinquanta è un po’ vecchiotto, è vero – quelli che capiscono dicono che è datato – ma un film, se bello, conserva sempre una sua freschezza. Nell’oscurità della sala, il grande schermo compie il miracolo e ti riporta a quegli anni, perché tutti i particolari sono di quel periodo e ogni cosa si sposa perfettamente con il resto: dagli oggetti agli ambienti, dalle mode alle inflessioni.
Con Sordi e la Valeri ci si poteva fare due risate, forse d’annata, ma gustose e inebrianti come quell’aria di boom economico che, visti i tempi grami, non fa mai male rispolverare. I più giovani, poi, avrebbero potuto apprendere chi fosse Rabagliati: come si fa a spiegar loro che il posto di quel signore che in scena è stato nominato tante volte, come fosse il divo del momento, oggi è stato preso da Fedez? È un’impresa mica da poco! Insisto: si doveva vedere la pellicola di Risi, e non riproporre la storia del film, mostrando soltanto il quadro d’antan. A sinistra – udite, udite – una scena tutta marrone. Riascolto già le urla dei maestri: «Il marrone sotto i proiettori è peggio del viola!». A destra uno spaccato finto moderno con l’arredo bianco e le tende rosa, confetto naturalmente: un’intuizione che nemmeno Almodóvar! Ma andiamo con calma, perché, signori miei, ieri sera ho visto cose che voi umani… come dice un mitico personaggio di Ridley Scott.
Dunque, Alberto Nardi e il marchese Stucchi sono in ufficio. Il marchese è il segretario tuttofare dell’imprenditore Nardi. Tra i due comincia il dialogo e si posizionano l’uno accanto all’altro (ma proprio spalla destra contro spalla sinistra), in proscenio di fronte al pubblico, sull’attenti, che ti vien da dire: «Scusate, state parlando tra di voi, perché non vi degnate neanche di uno sguardo? Rilassatevi!». Le loro voci arrivano senza intonazioni, amplificate dal rimbombo dei microfoni, in modo tale che in scena chiunque parli lo si ascolta dalle casse laterali: le parole non giungono mai direttamente dal palcoscenico. Un costante effetto playback ubriaca il pubblico! Alla fine della prima scena, consumata in ufficio, per passare alla seconda, al regista viene un’ideona, una trovata geniale: un buio improvviso e l’azione magicamente, al riaccendersi del piazzato, si sposta in casa del Nardi. Voi che siete ingenui penserete che durante il buio sia cambiato qualcosa. No. La scena era già lì, tutta linda e pronta, dipinta tra il bianco e il rosa, con il divanetto biposto e le due poltroncine ai lati del tavolinetto. Soltanto una paretina sul fondo si è allungata per pochi centimetri sulla sinistra.
No, ma, dico… dopo che abbiamo visto cambi scena con girevoli illuminati come il luna park, sipari che s’intersecano, praticabili che si spaccano, montagne che si dissolvono, palazzi che si schiantano in terra, gru metalliche che avanzano minacciose, ieri sera per far scorrere avanti e indietro una paretina, piccola minuta leggera, roba da due carrellini e una funicella per tirare, c’è bisogno di ricorrere al buio? E ogni volta, ad ogni cambio d’azione, da una parte e dall’altra, un buio, per un totale di circa quindici effetti di buio, forse più. Tuttavia, nel salottino di casa, il Nardi e il fido marchese restano a parlare alle spalle di Elvira, seduta, la quale interviene e risponde, cosicché i tre proseguono la conversazione ben frontali alla platea. D’altronde, lo sanno tutti, non guardandosi mai si recita meglio! E, soprattutto, i risultati si vedono, pardon, si ascoltano. Eppure, non contenti di rivolgersi sempre in avanti, anche se l’interlocutore è dietro, qualcuno, sia in ufficio che in salotto, si avvicina ancor più sfacciatamente alla quarta parete, o per sporgersi da una ipotetica finestra, o per mettersi il rossetto sulle labbra cercando il riflesso di uno specchio che una volta è un po’ più a destra e una volta più a sinistra. Bazzecole!
Con l’andar dei fatti e con le scenografie che si susseguono sempre più vorticose per inseguire una sceneggiatura che non si può riproporre a teatro così com’è (e con dei mezzi così antiquati), o quasi, il commendator Nardi si ferma nel tinello della sua amante, in pratica una minuscola cabina da spiaggia da cui spunta una poltrona che viene spinta in scena e ritirata, ma sempre passando per il buio. Buio che arriva implacabile con ritmi serrati e tempi assai disinvolti: un po’ prima (troncando l’ultima sillaba all’attore), un po’ dopo (quando le mani del macchinista hanno già agguantato l’ingombro da spostare), un po’ come gli pare (cogliendo qualcuno impreparato nell’uscita). A proposito, vogliamo osservare un attimo gli ingressi e le sortite degli attori in scena? Ricordo Mario Ferrero, durante le prove di un saggio, nel teatrino di via Vittoria, mentre dava indicazioni a una giovanissima allieva che, avendo la parete del teatro a un passo, esitava l’uscita facendo sentire, con il suo movimento cauto, la presenza del muro. «Quando esci da quella quinta, io voglio capire che di fronte tu hai un corridoio di quindici metri», disse il maestro. E tante volte la ragazza provò, che corridoio fu. Idem per gli ingressi: quando si entra in un ambiente bisogna far capire che si arriva da lontano, non si può ingannare il pubblico giocando a nascondino dietro la parete. Le stanze in teatro non sono tutte segrete, hanno spazi infiniti e se non li hanno, bisogna sollecitare l’immaginazione. In palcoscenico non si vive di sole file indiane (cfr. foto), esistono il movimento e la gestualità, che non devono per forza essere sollecitati dalle necessità, piuttosto dovrebbero essere suggerite per supporto e convenienza.
Il clou, come nella migliore tradizione, accade al gran finale, quando l’effetto scenico di una telefonata (sì, una semplice banale telefonata) deve seguire contemporaneamente sia colui che chiama che l’altro che risponde. Il telefono del bar è occupato, la luce quindi è accesa a sinistra: piccola gag. Buio a sinistra, luce a destra. I coniugi stanno per uscire: battute. Buio a destra, luce a sinistra: battuta. Nel mentre, un tecnico agisce a sinistra. La luce di servizio dalla quinta proietta la sua ombra sulla parete di fondo: sembra un ladro che s’intrufola in casa, si muove come la pantera rosa. Buio a sinistra, luce a destra. Il macchinista è ancora lì, a vista, che fugge dietro un telo nero. Qualcosa non ha funzionato.
Foto: da sin. Massimo Ghini, Irene Girotti, Tony Rucco e Paola Tiziana Cruciani (© ???)