ANNA DELLA ROSA, REGINA LUSSURIOSA
C’è subito da annotare che con un simile possente testo (malgrado sia stato ridotto a 140’ senza intervallo) e una resa attoriale di ottima qualità, la visione di questo Antonio e Cleopatra lascia una sensazione assai gratificante. Quando un regista trova il coraggio di rilanciare un’opera di Shakespeare tra le meno frequentate e a cavarne uno spettacolo che appaghi le esigenze di un pubblico, che ha preferito una prima teatrale alla serata inaugurale dell’annuale remake televisivo di Papaveri e papere (un pubblico elitario, quindi), costui può ritenersi soddisfatto. Alla vigilia, infatti, si temeva che la kermesse canora avrebbe rapito spettatori alla platea del Quirino: nonostante qualche defezione, il timore è stato scongiurato.
L’operazione di Valter Malosti mi pare che funzioni e restituisca tutti i principi storici ed emotivi di una tragedia, con personaggi che a Roma sono di casa. La storia di Cleopatra, infatti, è legata alla romanità a tripla mandata, con Giulio Cesare prima, poi con Antonio e infine con Ottaviano Augusto che mette fine al regno d’Egitto. Shakespeare approfondisce la seconda parte, raccontando, tra indolente abbandono e sensualità, i piaceri e le ragioni che, qualche anno prima di Cristo, unirono la regina tolemaica a Marco Antonio, console della repubblica: un matrimonio che ebbe inevitabili ripercussioni sugli intrighi politici romani. Tuttavia non siamo qui per parlar di storia, ma di teatro.
Nel complesso l’allestimento pare sia riuscito soprattutto grazie alla straordinaria esecuzione di Anna Della Rosa, nel ruolo di una protagonista, che ha regalato un carisma innovativo alla passione del suo personaggio decisamente sopra le righe: tra il grottesco e il sarcastico, l’attrice riesce a equilibrare sia il costante sospetto politico di una regina apparentemente inesperta ai giochi di potere che l’esigenza del vizio di Cleopatràs lussuriosa. Toni accattivanti e mai banali sostengono una recitazione tutt’altro che disinvolta, anzi ben solida e accattivante, che si alterna a sensuali – e per fortuna lunghe non più dell’essenziale – danze evocative di un oriente dal sapore tardo esotico.
Alla Della Rosa, regina e primadonna, rispondono bene Danilo Nigrelli e Noemi Grasso, rispettivamente Enobarbo (amico e confidente di Antonio) e la scespiriana Iras (qui ribattezzata Incanto, ancella della regina). Insieme formano il gruppo che meglio ha saputo interpretare sia la nuova, svelta e insinuante traduzione (firmata da Nadia Fusini con il Malosti) che le indicazioni di regia che spingono verso un atteggiamento di derisione e di dileggio nei confronti di un dominio che sta trasformandosi da repubblica (governata da un triumvirato) a un impero con un solo uomo al comando. Nelle intenzioni del regista si legge inizialmente un chiaro disegno di divertissement, in cui la leggiadria dei costumi (Carlo Poggioli cuce i caratteri dei personaggi sul fisico di ciascuno) diventa il segno più evidente di un «giochiamo a far la tragedia». Tragedia che invece viene enunciata dall’austerità delle scene di Margherita Palli: alte e severe pareti da dove vengono introdotti di volta in volta un talamo, due troni, una tomba o anche un cavallo (che ricorda quello dell’Orlando ronconiano) o una sontuosa toletta.
I duetti tra Cleopatra e Incanto (incantevole quello canoro: anche se il Quirino non è l’Ariston!) e i commenti di Enobarbo, talvolta irriverenti nei confronti del potere, suggeriscono allo spettatore una lettura disincantata, fuori dagli schemi ottocenteschi, ma molto vicini agli usi elisabettiani, quando il ruolo della regina era interpretato da un ragazzo en travesti: non a caso anche il trucco della protagonista fa pensare a una trasformazione di genere assai «fluida» ma scherzosa; una sorta di sfottente allusione agli eccessi esibizionistici di ieri e di oggi. Va bene, fin qui va tutto bene: soltanto un linguaggio eccessivamente goliardico può contenere battute maccheroniche come «Penis erectus non habet conscientiam»; e soltanto un dichiarato gioco teatrale, talvolta anche impertinente, giustifica che la notizia della morte di Fulvia (moglie di Antonio) raggiunga l’Egitto sulle pagine del Messaggero, il più popolare quotidiano romano. È appunto l’arte del divertissement!
Tuttavia, osservando meglio come si sviluppa l’andamento dell’allestimento, ci si accorge che è proprio Valter Malosti, nella parte di Antonio, il primo a non rispettare le regole della regia, a lasciarsi prendere troppo repentinamente da una recitazione meno sfiziosa, soprattutto quando s’allontana dalla vivacità delle Piramidi per raggiungere Roma e confrontarsi con il futuro imperatore. L’intera romanità è dipinta con seriosa alterigia, che contrasta con il mondo gaudente dell’Egitto (e chi l’avrebbe mai detto!). Cosicché Malosti si ritrova laggiù a far da crapulone alla corte di Cleopatra e qui a rivestire i panni del ragionevole triumviro al cospetto di Ottaviano.
Foto: Anna della Rosa (© Tommaso Le Pera)