05 febbraio 2025

«A cuore aperto» di Patrizio Cigliano

Roma, Teatro Belli
4 febbraio 2025

«PENSAVO CHE L’AMORE FOSSE UNA COSA SEMPLICE»

Patrizio Cigliano ripropone al Belli un suo cavallo di battaglia, A cuore aperto, scritto 23 anni fa e ormai giunto alla 19ª edizione, che, però, non avevo mai visto. Sul fondo della scena alcune valigie accatastate sembrano il bagaglio di una vita e in effetti lo sono. La canzone in sottofondo lo confermerebbe. All’interno, infatti, sono stipate tutte quelle «frasi d’amore di fedeltà che a un altro cuore ripeterà... Illusione, dolce chimera sei tu». Quel cuore aperto del titolo è una lunga lettera d’amore scritta a quattro mani, da Giuseppe e da Maria, marito e moglie, ormai anziani, che restano agganciati nell’ultimo sguardo, lungo un minuto, forse qualche attimo in più, durante il quale rivedono tutta la loro esistenza concentrata in un momento: da quando si sono conosciuti ragazzini e facevano il bagno nudi nel fiume, fino al primo rapporto, dalla nascita della loro figlia Checca, fino all’istante in cui la luce di lei si spegne tra le braccia di lui.

L’autore, per raccontare l’idillio di una convivenza durata circa mezzo secolo, sceglie in pratica la formula del monologo, anzi del doppio monologo (prima quello di lui, poi quello di lei), separati quasi nettamente, in cui sono incastonati flash visionari di giochi, di sorrisi, di solidarietà ma soprattutto di tanta comprensione. «Pensavo che l’amore fosse una cosa semplice», dice una voce che arriva fuori dal tempo della narrazione, portando una ventata di verità di un periodo storico che si distende dall’inizio del Novecento fino al secondo conflitto mondiale. Ci sono accenni alla Grande guerra, poi alla campagna africana, ma è sempre l’amore a rimanere in primo piano, ad essere messo a fuoco dall’obiettivo dei ricordi che le valigie contengono e che man mano vengono aperte.

Oltre a qualche famosa canzone dell’epoca, fanno da cornice sonora i commenti delle coscienze, schegge di pensieri assordanti e dissonanti con l’andamento narrativo, riportati dalle voci di Arnoldo Foà e di Maria Rosaria Omaggio (scomparsa il 30 giugno scorso), alla quale giustamente Cigliano ha voluto dedicare un applauso a fine spettacolo. Tuttavia, lasciatemelo dire, ascoltare l’inconfondibile voce di Foà è stata una vera estasi, che ha dato al testo una sapiente spinta drammatica.

Il racconto di Giuseppe pare cominciare in maniera disordinata, opposta alla cura con cui sbuccia una mela, che non è il frutto del peccato, ma è il tempo delle mele: quando si diventa più maturi e smaliziati, più coscienti e pazienti, perché l’amore non è mai una cosa semplice. Le parole di Giuseppe (Patrizio Cigliano in un ruolo che ormai l’esperienza gli ha ricucito addosso con gran disinvoltura) sono disturbate da un orologio che ripete ossessivo un orario assurdo: mezzogiorno meno un minuto. Che nel cuore aperto dell’uomo corrisponde a una mezzanotte di disperazione. La memoria di lui corre confusa da una fotografia all’altra, sul filo dell’angoscia per una sventura da scongiurare. I rimpianti si susseguono incuranti delle mancanze, trascurando finanche la logica della narrazione, così da lasciare spazi vuoti nel racconto, che saranno poi riempiti dai ricordi di Maria (una tenera e giocosa Maria Cristina Gionta, ottima nel rendere improvvisamente fresco e gioioso un rapporto logorato dalla malattia di lei) che invece schiariscono ogni ombra, restituendo comprensione e continuità alla loro vita.

È Maria che riesce a mettere l’amore al di sopra delle armi, al di sopra della gelosia, al di sopra dei dispetti imposti dal fascismo: «Ma l’amore, no, l’amore mio non può disperdersi nel vento, con le rose, tanto è forte che non cederà, non sfiorirà», sembra un ritornello fatto apposta per lei, per la sua caparbietà, così come recita il sottotitolo: «l’amore non muore mai». È lei che, infatti, protegge l’amore, anche a danno di una figlia che non rivedrà mai più. Giuseppe nel dolore trova un astrattismo narrativo che Maria compensa con semplicità lirica. Quando infatti si ha l’impressione di assistere a due monologhi, invece, si intuisce che sono due poesie. L’una riflessa nell’altra. (fn)
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A cuore aperto (l’amore non muore mai!), di Patrizio Cigliano. Con Maria Cristina Gionta e Patrizio Cigliano. E con le voci registrate di Arnoldo Foà e Maria Rosaria Omaggio. Regista collaboratrice, Claudia Genolini. Musiche, Fabio Bianchini. Regia di Patrizio Cigliano. Produzione: Associazione culturale Arcadinoè. Al teatro Belli, fino al 6 febbraio

Foto: Maria Cristina Gionta e Patrizio Cigliano (© Valerio Faccini)

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