04 febbraio 2025

«Mistero buffo» di Dario Fo


Roma, Sala Umberto
3 febbraio 2025

QUANDO GESÙ ERA CHIAMATO PALESTINA

Bravo, Matthias, davvero bravo. E soprattutto coraggioso. Affrontare un classico del teatro moderno che parla di ieri come di oggi, del medioevo narrato dall’incantevole follia di Dario Fo, come fosse il presente di oggi e di domani, è un’operazione che merita un encomio. Ho riso, ma non nascondo di essermi anche commosso: Matthias Martelli non è Dario Fo – e guai a farne un paragone – ma, pur se con molte differenze, il suo Mistero buffo è talmente fedele nell’essere una giullarata che a tratti m’è parso di risentire il suono delle cavalcate di Dario ascoltate e riascoltate da ragazzo al teatro Tenda di piazza Mancini.

Un ricordo personale. All’epoca, verso la fine degli anni Settanta, avevo il vizio, al termine di ogni spettacolo teatrale, di andare a bussare alla porta del primo camerino e porgere al protagonista della serata una fotografia che lo ritraeva, per farmela autografare. Ero un indomabile collezionista di autografi. E, per non smentirmi, anche ieri mi sono fatto dedicare il libro da Matthias. Quella sera ero in fila al botteghino del Tenda per rivedere, l’ennesima volta, Mistero buffo, con la mia bella foto sotto il braccio che avrei mostrato a Fo soltanto al termine, ma lui invece era lì, proprio all’ingresso, per vederci in faccia uno ad uno. Praticamente gli cascai tra le braccia. D’impeto lo salutai e tirando fuori dalla busta la fotografia, con un certo orgoglio, non feci a tempo a salutarlo «Ciao, Dario…» (sapevo che gli si poteva dare il tu senza problemi, anche se non lo conoscevo personalmente), quando il suo sorriso s’illuminò di gioia: «Che bella», mi disse, prendendomi la foto dalle mani, «questa me la tengo, dove l’hai trovata?». «Veramente…», azzardai con eccessiva timidezza. E lui, con irruente simpatia: «Dai, vatti a sedere, io intanto corro a mostrarla a Franca. Grazie».

Malgrado un pizzico di delusione, non mi persi d’animo. Andai dal buon Molfese, che ben conoscevo, e gli chiesi la cortesia di poter telefonare a mio padre al giornale: «Papà, a Fo è piaciuta talmente tanto la fotografia che se l’è presa!». «Va bene, cerco di portartene un’altra – disse mio padre – Te la lascio al botteghino». E infatti all’intervallo trovai lì una busta, a mio nome, con una seconda fotografia (meno bella della prima). Finito lo spettacolo, m’infilai dietro il palcoscenico. Attesi il mio turno e mi presentai con una nuova foto ben stretta tra le dita.
«Ma ce le hai tutte tu!», attaccò Dario.
«Questa però me la firmi», dissi io prima che lui potesse carpirla.
«Ah, ma allora quella di prima non l’avevi portata per me?»
«No, volevo l’autografo, ma non fa niente, ormai è tua.»
«Meno male, grazie, perché è proprio bella e mi mancava: vedi come sta bene qui!», e me la indicò già in bella mostra, accanto allo specchio.
Dopo l’autografo, scostò un panno teso tra due cantinelle e lei apparve mentre si allacciava gli stivaletti.
«Franca, lui è il nostro spacciatore di foto!»

Un po’ di storia. Anche Martelli, proprio come Dario Fo, prima di cominciare, ha introdotto lo spettacolo alla maniera degli antichi giullari, colorando le cronache medievali con riferimenti irridenti al mondo di oggi: e se una volta erano soprattutto i papi ad essere colpiti dalle battute irridenti, da quando c’è la repubblica i bersagli più succulenti sono i politici che ovviamente non sono più quelli degli anni Settanta. E siccome i giullari erano gli unici che a corte potevano spiattellare la verità davanti al sovrano, Martelli ha ricordato con particolare affetto il momento della premiazione del Nobel del 1997, quando il re di Svezia consegnò il più ambito riconoscimento al più dotto giullare del Novecento che «dileggia il potere – fu la motivazione – per dare dignità agli oppressi». I contadini sfruttati dal padrone e dai potenti sono gli operai di oggi, sosteneva Dario, sin dalla fine degli anni Sessanta, quando, dopo anni di studio e molte esperienze, nacque l’idea di Mistero buffo.

Era il 1969 e alla Statale di Milano gli studenti erano in assemblea permanente. Dario Fo era stato invitato per discutere di tematiche politiche e sociali, molto sentite in quel momento. Invece, appena prese parola, cominciò la più imprevedibile lezione di letteratura medievale incentrata però sullo sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi, dei papi e dei vescovi, ma con riferimenti ai poeti e ai giullari. Su tutti il Ruzante, al quale Fo si ispirò per costruire il linguaggio con cui raccontare le storie che stava scrivendo. Storie inventate ma sempre aderenti al mondo dell’antichità già descritta dai Vangeli apocrifi e non solo, e da lui riproposte, perché sempre attuali, con fonemi che sono suoni di parole, assonanze onomatopeiche, virtù vocali che scendono nel profondo e salgono sul tetto di un acuto per meglio condensare l’animo di un personaggio da far vivere sulle tavole di un palcoscenico. È il grammelot (dal francese, grommeler, ossia borbottare) con cui vien fuori meglio la comicità, ma soprattutto ripropone l’origine di un marchio popolare, ossia quella tradizione che tramanda oralmente un patrimonio culturale che era andato perso.

«Mistero buffo – sintetizza Martelli ai più giovani – significa il sacro racconto alla maniera dei comici dell’arte». Gli zanni, per intenderci, nome che venne dato a un personaggio comico del teatro dell’antica Roma, e che venne adottato nel nordest padano, caro a Fo, come diminutivo di Giovanni (Zuan). Non a caso il protagonista del secondo racconto di Martelli si chiama Giovan Petro.

La serata. Una canzone accoglie gli spettatori in sala e qualcuno mormorando canticchia con nostalgia: «Ma che aspettate a batterci le mani / A metter le bandiere sul balcone? / Sono arrivati i re dei ciarlatani / I veri guitti sopra il carrozzone…» La voce soffusa di Dario è ben riconoscibile anche sotto il brusio del pubblico. Ma la star che già s’aggira in sala è Matthias, il quale saluta la gente in platea e ha un sorriso per tutti. Chissà, se gli avessi portato una foto! Poi riconquista il palco e, dopo l’introduzione, piena di battute che i più informati sui fatti d’attualità capiscono al volo, mentre altri hanno bisogno dell’imbeccata del vicino, il Mistero s’apre sul primo miracolo di Gesù, detto Palestina, che faceva volare gli uccellini di argilla per giocare con i bambini egiziani. Uno dei brani più esilaranti di Dario Fo, che Matthias replica, a suo modo, protetto dalla regia di Eugenio Allegri. Martelli riesce bene a far rivivere tutti i personaggi (Gesù in età infantile, la Madonna giovane madre, San Giuseppe sospettoso, Sant’Anna vegana, i re magi con il negro che non s’offende d’esser chiamato negro, né di attraversare il deserto sul cammello invece del cavallo) nel racconto di un menestrello che regala le diverse voci a tutti, comprese le comparse. È teatro narrato, ma teatro a pieno titolo, che differisce – e non poco – dal monologo. I dialoghi danno vita ai personaggi che riempiono il vuoto della scena grazie alla maestria del giovane mattatore che interpreta parte e controparte, alternando chiaramente voci e posture, toni e gestualità.

Poi, dopo un sorso d’acqua consumato in quinta, attacca il secondo brano. «La parpaja topola», tratto dal Fabulazzo osceno, riscrittura boccaccesca del Mistero buffo. È l’episodio, a cui s’accennava prima, di Giovan Petro, un pastorello rozzo e ingenuo che diventa all’improvviso ricco e si ritrova a dover gestire l’irruenza delle donne; dall’avvenenza delle quali era stato messo in guardia da un vecchio misogino. La parpaja topola è l’organo sessuale femminile che il protagonista teme, e dai cui diffida, fino a quando incontra la bella Alessia che gli fa cambiare idea. La comicità del giullare e la tenerezza del poeta sono gli elementi trascinanti di questa favola che non risente dell’età. È del 1982, ma, come l’altra che è stata scritta almeno 10 anni prima, tocca argomenti sempreverdi: bramosia di potere e sesso non conoscono tramonti.

Matthias Martelli riporta in palcoscenico il miglior teatro di Dario Fo, il più espressivo, il più significativo, ma anche il più esigente. Ne ripropone soltanto due brani in un’unica serata capitolina alla Sala Umberto. Mi auguro di rivederlo presto a Roma, dove bisogna far conoscere, a tanti giovani che non lo sanno, chi era Dario Fo, re dei giullari, re dei ciarlatani che dileggiava il potere per restituire dignità agli oppressi. (fn)
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Mistero buffo, di Dario Fo. Con Matthias Martelli. Regia di Eugenio Allegri. Alla Sala Umberto, serata unica 

Foto: Matthias Martelli (© ???)

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