LA VERITÀ SECONDO BORSELLINO
La grande denuncia di Claudio Fava arriva dal palcoscenico per voce di David Coco, e affonda le radici in via D’Amelio, a Palermo, dove il 19 luglio 1992 l’esplosione di una Fiat 126, carica di tritolo, uccise il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Da quello scoppio, da quella polvere, da quel puzzo di cadaveri bruciati dalla deflagrazione e sparsi lungo la strada per centinaia di metri, Borsellino riprende vita e, in maniche di camicia e sigaretta alle labbra, comincia la sua deposizione davanti a un invisibile magistrato, suo collega, che lo ascolta in silenzio per quasi un’ora, durante la quale rivela la grande menzogna alla quale, appena morto, ha dovuto assistere inerme. Fava ricostruisce la sua tesi per la scena partendo dai sospetti lanciati dai figli di Borsellino, dai tanti omissis rimasti sospesi durante il processo, dalla famosa agenda rossa di cui si sono perse le tracce, dalla scrivania improvvisamente ripulita in pretura poche ore dopo la strage. Insomma, i particolari giudiziali rimasti pendenti – raccontati anche in un libro – e le tante stranezze che continuano a non trovare una soluzione diventano il tracciato da seguire in un contesto che assomiglia alla revisione del processo da parte della vittima.
David Coco, che ricorda anche fisicamente il giudice scomparso, è solo in scena. Con lui soltanto quattro manichini e il fumo delle Esportazioni senza filtro, «quelle che fanno più male di tutte» ricorda, aggiungendo che sarebbe potuto morire per le sigarette, «invece sono morto col tritolo». L’attore fa dell’eleganza la forza silenziosa di una figura irreprensibile di chi ha subito un torto atroce e sa di non poter ribaltare la realtà, e immediatamente riesce a trasmettere una severa e coscienziosa indignazione; un atteggiamento fortemente drammatico che conserverà per tutto il monologo, anche se talvolta si rintanerà nell’ironia, quella che fa male a chi l’ascolta, ma anche a chi la pronuncia. Fa male perché in questo processo irrisolto – come in altri – siamo tutti invischiati, per quel concetto democratico che vuole che lo Stato siamo noi. C’è una battuta con la quale Borsellino dichiara che «se la mafia non esistesse bisognerebbe inventarla», sì, perché la scusa della mafia, vista dalla ribalta di un teatro dove le parole si colorano di significati evocativi, aiuta a ripulire molte coscienze. Ed è per questo motivo che allo Stato fa comodo convincersi «che dietro la mafia ci sia soltanto la mafia».
La grande menzogna è, infatti, il depistaggio: un subdolo espediente – secondo le teorie di Fava (ma obbiettivamente non sono soltanto le sue) – che ha trovato nella mafia siciliana un ovvio e naturale responsabile. Si diceva dei manichini che rappresentano quattro protagonisti del processo: nessuno, però, è affiliato a Cosa nostra. Eccoli fotografati sulle pance dei modelli: Contrada, La Barbera e Tinebra, tutti legati ai Servizi segreti del Sisde; e c’è Scarantino, il fantoccio da usare. Ogni parola scritta da Fava appartiene a una verità. Ma l’unica verità a cui si assiste in palcoscenico è quella teatrale. E allora la considerazione, che dal caso letterario sollevato da Fava raggiunge la platea, riguarda la costruzione scenica di un testo che regge bene proprio grazie alla rappresentazione di quei manichini che restano costantemente in bilico tra finzione e realtà, tra essere e non essere, e diventano i pupi di una tradizione storica e di un’insana educazione manipolatrice.
____________________
La grande menzogna, scritto e diretto da Claudio Fava. Con David Coco. Disegno luci, Antonino Caci. Scene e costumi, Lydia Giordano e Iolanda Mariella. Produzione: Nutrimenti terrestri. Al teatro Belli, fino al 2 marzo
Foto: David Coco (© ???)