LO CUNTO DI PASCALINA, FEMMINA DEL SUD
La settimana scorsa, la recensione di un altro spettacolo, visto all’Off/Off, cominciava così: «La terribile storia di Saman Abbas, già raccontata dai cronisti che hanno seguito quotidianamente la vicenda, dalla sua sparizione (1° maggio 2021) fino al ritrovamento del cadavere (18 novembre 2022), è diventata nel 2023 materia per primo un libro», e poi anche per un secondo. La trascrizione teatrale della tragica vicenda della diciottenne di origine pakistana, uccisa dai suoi stessi familiari perché giudicata «colpevole» di voler amare liberamente, era stata, in pratica, già immaginata, o quasi, nel 2006 da Saverio La Ruina. Con un finale meno drammatico, Dissonorata torna per un’unica rappresentazione sul palco del Quirino proprio nel giorno in cui è stata annunciata la vendita dello stabile alla United Artist di Roberta Lucca (moglie di Geppy Gleijeses, già direttore artistico nella passata gestione).
Nel dramma di Pascalina, un delitto d’onore in Calabria, l’autore riscrive secoli di storia vissuta. Una storia tutta italiana che affonda le radici in una sottocultura che oggi diremmo di stampo islamico. Ma non è così: e ringraziamo Saverio La Ruina per avercelo dimostrato con sensibile delicatezza e maestria d’attore. Saman e Pascalina, infatti, pur appartenendo a due etnie molto diverse, sono figlie della stessa educazione. La ragazza pakistana è stata uccisa nel 2021, Pascalina (personaggio inventato, ma realistico) resta vittima di un tentativo di omicidio da parte del fratello (che s’era accordato con i genitori, come lo zio di Saman), in un anno imprecisato ma certamente durante il secondo dopoguerra, e non più tardi del 1960, in una zona montuosa della Calabria, vicino al confine con la Lucania. All’epoca – e in quei territori – l’Islam era forse soltanto un’eco che giungeva dai racconti delle guerre saracene che si tramandavano per tradizione sulle coste marine o da qualche brandello di favola delle Mille e una notte recuperata da qualche libro che pochi sapevano leggere. Eppure, nel paese di Pascalina, le donne uscivano raramente da casa e quando succedeva, pur non dovendo indossare il burka, era consuetudine che tenessero lo sguardo a terra e gli occhi impegnati a contar le pietre. Guai a guardare un uomo in faccia, guai a mostrare il viso aperto.
Attraverso le parole di Pascalina, La Ruina descrive bene il contesto nel quale si svolge la scena: il territorio dei dimenticati, il paese degli umili, la povertà per famiglia, e poi comincia il fatto. Il padre è «il re», è lui che organizza la scuola alla figlia assegnandole prima la cura degli agnelli, poi la guardia delle pecore e, una volta promossa, le affida l’alta mansione di pascere le vacche. Ecco la scuola di Pascalina! La quale, un giorno, per strada, incrocia delle coetanee che camminano con le ginocchia scoperte e le braccia nude: «Così vestite, possono fare una sola cosa!», sentenzia lei. Ecco l’educazione di Pascalina, ragazza rispettosa. Per uno sciagurato incontro, e un colpo di fulmine con un giovane con l’automobile celeste, resta incinta. L’uomo non si fa più vedere, e per salvaguardare l’onore della famiglia, il fratello è disposto a darle fuoco. La vicenda poi ha un epilogo diverso da quello che qualche anno fa è toccato alla povera Saman, ma le motivazioni che hanno portato gli uomini del nostro sud a pensare esattamente come i genitori della ragazza pakistana ci dovrebbero far comprendere che la religione, qualunque essa sia, ha poco a che fare con questo genere di delitti o di maltrattamenti. Qualcuno dice che si tratta di patriarcato, di maschilismo: può darsi, ma di base è ignoranza. E Pascalina lo ha capito e ce lo ha spiegato molto chiaramente. Il patriarcato prepotente, il maschilismo violento sono conseguenze dell’ignoranza.
Ce lo ha spiegato nella sua lingua, un idioma calabro-lucano molto stretto e tenace, rustico e colorato, ma che La Ruina ha snocciolato, sillaba per sillaba, con delicatezza vibrante, invitandoci a seguirlo in un andamento sonoro che pare scritto con crome e biscrome, in uno spartito dove ritmi e suoni segnano i momenti più toccanti e quelli più lirici. Il racconto si avvale del commento musicale di Gianfranco De Franco che annuncia, segue e interrompe lo svolgimento de lo cunto, sottolineando con acuti (al clarinetto e al sax) i silenzi drammatici dell’interprete. Purtroppo, proprio quando il fuoco divampava, il microfono dell’attore ha cominciato a gracchiare, annebbiando la comprensione. Non si vuol capire che il microfono è una sciagura, in scena, peggiore dell’ignoranza!
Foto: Saverio La Ruina. In penombra, a sinistra, Gianfranco De Franco (© ???)